Ordine Secolare Francescano - Montughi

Spiritualità e Cultura





La consapevolezza di se stesso di Gesù, il Figlio di Dio



Al termine dell’incontro del 23 Dicembre in preparazione al Natale, l’intervento e la domanda di Gianfranco Vanni ha richiesto una risposta non breve, che ripropongo più articolata e, spero, precisa, perché l’argomento non è facile e non si può trattarlo in modo affrettato. Gianfranco ha riportato quanto espresso da Scalfari sull’ultimo numero di Repubblica (immagino di martedì 22 dicembre o del giorno dopo), in merito alla consapevolezza che Gesù aveva di se stesso. A prescindere dall’articolo, alcuni punti della questione sono chiari, altri molto meno. E non volendo scandalizzare nessuno, provo ad ampliare il discorso con il pensiero di ben altri autori che il sottoscritto. Sarà un discorso non breve e mi perdonerete se alle volte sarà involuto o troppo allargato nella prospettiva. Introduzione. La domanda, o riflessione che fosse, di Eugenio Scalfari, come altri interrogativi intorno alla persona di Gesù, per essere fecondi chiedono di essere trattati all’interno del medesimo registro comunicativo. Altrimenti restano una discussione da salotto, fra intellettuali che non si lasciano coinvolgere più di tanto nella ricerca del senso della domanda e dell’appello ivi contenuto. Con «registro comunicativo» non intendo solo la stessa lingua, ma soprattutto il contesto esistenziale da cui nasce la domanda. Qui essere credenti o meno non è equivalente, né per far sorgere la domanda, né per cercarvi una risposta. La fede cristiana nasce dal racconto di Pasqua. Per noi Gesù è vivo. Colui che è stato crocifisso è apparso vivo ai discepoli, nella sua Signoria messianica sull’umanità intera. L’annuncio e la testimonianza di questo avvenimento ci giungono solo attraverso la narrazione fatta dai primi discepoli, testimoni sia della vita umana che delle apparizioni del Risorto. Quel Gesù che hanno conosciuto dal battesimo nel Giordano è apparso vivo, in una presenza nuova, conclusasi con l’essere racchiusa definitivamente nel mistero di Dio (cf At 1,15-26 sull’elezione di Mattia, per ricostituire il collegio dei Dodici, dopo il suicidio di Giuda). Per la «narrazione evangelica», intesa come l’intero Nuovo Testamento, Gesù di Nazareth, il crocifisso, è stato assunto nella dimensione divina attraverso la risurrezione nella potenza dello Spirito (Rm 1,3-4; At 2,22-36). Per la stessa «narrazione evangelica» la dimensione divina che Gesù possiede dopo la sua Pasqua, è l’espressione nella carne della dimensione divina che aveva prima del suo concepimento (Gv 1,1-18; in qualche modo anche Gal 4,4-5). La teologia chiama il primo aspetto «cristologia dal basso»: riflessione (discorso) sulla storia di Gesù, come viene descritta soprattutto dai Vangeli detti sinottici (Matteo, Marco e Luca). Il secondo aspetto è detta «cristologia dall’alto»: riflessione (discorso) sulla storia di Gesù espressa chiaramente nel quarto Vangelo (Giovanni). Per la fede cristiana le due riflessioni sono entrambe possibili e valide, purché si concludano con la medesima affermazione: Gesù Cristo è pienamente uomo e pienamente Dio, come afferma la fede della chiesa indivisa. Con una sola e ovvia distinzione. Colui che al di là del tempo è Figlio, solamente dal concepimento nel grembo di Maria ha iniziato una vita nella carne umana. Da allora, il Figlio non si è più separato da questa carne nella quale è Gesù di Nazareth, il Cristo: vero Dio e vero uomo, come lo riconosciamo apparire nel mistero della sua nascita. Le domande sulla persona di Gesù, riconosciuto il Cristo Gesù è il Signore (cioè è Dio). Questa è l’affermazione della fede. Dal suo interno nascono le domande sul «come» e sul «perché». Domande che sono state sempre poste e che hanno avuto risposte diversificate: alle volte la riflessione dei credenti è giunta a decisioni senza ritorno; alle volte le risposte sono state determinate più dalla cultura del tempo che dallo Spirito; alle volte … siamo ancora in alto mare. Interrogarsi sulla consapevolezza che Gesù aveva di sé stesso e della sua missione non è una questione nuova da teologi dell’ultima ora. Appartiene alla tradizione dei primi secoli, quando, secondo il linguaggio e la mentalità di allora, si cercò di comprendere come e perché Dio ci abbia salvato mediante la storia dell’uomo Gesù di Nazareth. Ogni ipotesi teologica era un tentativo di per sé valido, per affermare valori o particolari importanti per la fede, ma talvolta e al tempo stesso se ne trascuravano altrettanto essenziali. In estrema sintesi si è cercato sempre di evitare i due estremi: affermare che l’umanità di Gesù era solo un’apparenza oppure stabilire il momento della sua storia umana nel quale Dio l’avrebbe accolto come figlio (si pensava in genere al battesimo nel Giordano). Prendendo le distanze da questi estremi, la fede della chiesa ha seguito un principio fondamentale: «ciò che è stato assunto [dal Figlio eterno] è stato salvato». L’intera esperienza umana, nei suoi dinamismi fondamentali, è stata vissuta dal Figlio eterno del Padre per essere consegnata interamente sulla croce e diventare nella sua obbedienza d’amore strumento di salvezza. Negli anni ’80 le discussioni dei teologi sulla coscienza di Cristo si erano diffuse tra i credenti, mettendoli in crisi di fronte alle ipotesi più estremiste. Allora la Commissione teologica internazionale ha pubblicato nel 1986 uno studio profondo sulla coscienza che Gesù aveva di se stesso e della sua missione. La ricerca si è chiusa con le quattro affermazioni seguenti: 1. La vita di Gesù testimonia la coscienza della propria relazione filiale al Padre. Il suo comportamento e le sue parole, che sono quelli del “servo” perfetto, implicano un’autorità che supera quella degli antichi profeti e che appartiene a Dio solo. Gesù attingeva tale incomparabile autorità dal suo singolare rapporto con Dio che egli chiama “Padre mio”. Egli aveva coscienza di essere il Figlio unico di Dio e, in questo senso, di essere egli stesso Dio 2. Gesù conosceva lo scopo della sua missione: annunciare il Regno di Dio e renderlo presente nella sua persona, nei suoi atti e nelle sue parole, affinché il mondo sia riconciliato con Dio e rinnovato. Egli ha liberamente accettato la volontà del Padre: dare la propria vita per la salvezza di tutti gli uomini; si sapeva inviato dal Padre per servire e dare la propria vita “per molti” (Mc 14, 24). 3. Per realizzare la sua missione salvifica, Gesù ha voluto riunire gli uomini in vista del Regno e convocarli a sé. A tale fine Gesù ha compiuto atti concreti la cui sola interpretazione possibile, se presi nel loro insieme, è la preparazione della Chiesa che verrà costituita definitivamente all’epoca degli avvenimenti della Pasqua e della Pentecoste. È dunque necessario affermare che Gesù ha voluto fondare la Chiesa. 4. La coscienza, che Cristo ha di essere inviato dal Padre per la salvezza del mondo e per la convocazione di tutti gli uomini nel popolo di Dio, implica, in modo misterioso, l’amore di tutti gli uomini, cosicché possiamo tutti quanti dire: “Il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Queste conclusioni mostrano «quale» sia stata la coscienza di Gesù. La Commissione ha deciso di non inoltrarsi sul «come» egli sia giunto a questa consapevolezza, attraverso quale percorso di coscienza. La questione che è sembrato venire fuori dall’articolo di Eugenio Scalfari è proprio su questo punto, a tutt’oggi oggetto di riflessione. Benedetto XVI, riferendosi a quando Gesù dodicenne viene ritrovato a discutere con i dottori nel tempio (cf Lc 2,46-52), si esprime così: Gesù conosce Dio «non soltanto attraverso gli uomini che lo testimoniano, ma lo riconosce in sé stesso. Come Figlio, sta a tu per tu con il Padre. Vive alla sua presenza. Lo vede. […] È proprio ciò che diventa evidente nella risposta del dodicenne: Egli è presso il Padre, vede le cose e gli uomini alla sua luce. Tuttavia è anche vero che la sua sapienza cresce. In quanto uomo, egli non vive in un’astratta onniscienza, ma è radicato in una storia concreta, in un luogo e in un tempo, nelle varie fasi della vita umana, e da ciò riceve la forma concreta del suo sapere. Così appare qui, in modo molto chiaro, che egli ha pensato e imparato alla maniera degli uomini. Diviene realmente evidente che Egli è vero uomo e vero Dio, come si esprime la fede della chiesa. Il profondo intreccio fra l'una e l'altra dimensione, in ultima analisi, non lo possiamo definire. Rimane un mistero e, tuttavia, appare in modo molto concreto nella breve narrazione sul dodicenne. Essa, in tal modo, apre al tempo stesso la porta verso la pienezza della sua figura, che poi i Vangeli ci racconteranno» [J. Ratzinger, Gesù di Nazareth. La figura e il messaggio, (Opera omnia 6/1), LEV 2013, p. 113]. Ipotesi da credenti La riservatezza con cui Ratzinger si pronuncia alla fine del discorso va tenuta in debito conto. In punta di piedi, penso che potremmo dare peso alla storicità di un apprendimento umano che Gesù ha vissuto, alla luce di quello svuotamento radicale che il Figlio ha vissuto nella sua dimensione divina per vivere un’obbedienza umana libera e sofferta, come ne parla Filippesi 2,7-8: «svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce». Lungo i passi di questo percorso umano, certamente un evento singolare dev’essere stata l’epifania dello Spirito su di lui, ricevuta al Giordano per i Sinottici, ma che per Gv potrebbe essere accaduta in un altro momento. In quell’esperienza carismatica Gesù potrebbe aver sperimentato una particolare illuminazione su sé stesso e sulla sua missione, tanto da abbandonare uno stile di predicazione penitenziale simile a quello di Giovanni per dedicarsi all’annuncio del Regno di Dio (cf Gv 4,1-3). Spinto dallo Spirito, il suo peregrinare per le strade della Palestina a un certo punto diventa un cammino deciso verso Gerusalemme: «prese la decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). E i racconti della cena ultima con i discepoli testimoniano la decisione libera di offrirsi alle mani degli uomini, nella chiara consapevolezza che attraverso la sua morte il Regno di Dio irromperà sulla terra: «non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25). Questa progressiva comprensione di come attuare la sua missione («forma concreta del suo sapere», come scrive Ratzinger) si svolge sempre sotto quella ininvestigabile relazione singolare che Gesù aveva con Dio, che percepiva e chiamava «Padre mio». Non possiamo inoltrarci nell’abisso della relazione fra Gesù e il Padre. Colui che per la tradizione ha lo sguardo di fede dell’aquila, il discepolo prediletto ha potuto sporgersi sul ciglio di quell’abisso, chinando il capo sul petto del suo Signore (cf Gv 13,25). Possiamo fare lo stesso anche noi? Se osiamo farlo, quella sera terribile sulla croce, possiamo indagare quale fosse la coscienza che Gesù aveva allora del suo rapporto con il Padre? E questo bambino appena nato a Betlemme, aveva forse altre consapevolezze istintive che non quelle di aggrapparsi alle mammelle di Maria per succhiarne il latte e piangere per chiederlo ancora? Sono gli estremi di una vita nella carne che fanno appello alla fede perché si riconosca in quell’uomo il Figlio di Dio. Alla fine, tra ipotesi teologiche, riflessioni più o meno critiche, pensieri disparati, non ci resta che un gesto da compiere per rimanere nella verità dei discepoli di Gesù: inchinarsi in adorazione davanti a quel bambino. Dovrà vivere tutta la sua storia umana, ma fin da quella notte è Colui nel quale il mistero di Dio si è fatto carne. E noi, pur essendo gente di poca fede, credo che ne abbiamo a sufficienza per metterci in ginocchio davanti a Lui e adorarlo con stupore. Allora sarà davvero Natale per ciascuno di noi. Fra Valerio Mauro OFM Capp.